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Imparare a stare al mondo: famiglia e socializzazione primaria

La società si assicura la continuità da una generazione all’altra attraverso il processo di socializzazione, che permette la formazione della personalità degli individui e l’apprendimento dei modelli comportamentali della società in cui sono inseriti.
Individui diversi devono acquisire abilità complesse, un linguaggio comune, un comune modo di relazionarsi, di comunicare e di comportarsi, pena l’impossibilità della stessa vita sociale. Ma se la presenza di questi elementi comuni è ciò che garantisce la continuità del nostro vivere sociale, in che modo questi elementi hanno origine?
Come è possibile che individui differenti riescano a condividere con gli altri tutti gli aspetti che costituiscono la vita quotidiana? Attraverso quale processo la società garantisce la propria esistenza consentendo ai nuovi nati di accettarne le regole e i modelli, non solo perché imposti, ma in quanto sentiti come naturalmente parte di sé?
“La coscienza collettiva è l’insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri di una società. Questo insieme ha una vita propria che non esiste se non attraverso i sentimenti e le credenze presenti nelle coscienze individuali” (E. Durkheim).
Il sociologo francese Émile Durkheim (La sociologia e l’educazione, 1922) diede un primo ed importante contributo alla teoria della socializzazione, coniando il concetto di coscienza collettiva.
Egli si riferiva con questo termine ai valori e alle norme condivise ed alle attitudini generali di un gruppo o di una collettività, che vengono interiorizzati dai singoli membri. Al centro della concezione sociologica della socializzazione vi è dunque il processo di interiorizzazione di norme e valori, ossia la trasformazione dei controlli e degli scopi sociali esterni in una struttura interiore di orientamenti e di disposizioni dell’azione.
Il compito primario dell’educazione sarebbe quello di inculcare nella coscienza dei singoli individui le norme e i valori che sono alla base di un sistema sociale.
I genitori assumono, il più delle volte in modo inconsapevole, la funzione di modelli fornendo al bambino gli elementi attraverso cui egli sviluppa i propri schemi di comportamento sociale adeguato. Gli studi di Sigmund Freud e dei suoi discepoli, di Mead (Mind, Self and Society, 1966) e della psicologia dell’età evolutiva hanno evidenziato l’importanza dei processi attraverso cui le norme sociali vengono interiorizzate dal bambino così da divenire parte della sua stessa vita psichica.
Fin dalla nascita, l’essere umano non solo interagisce con il proprio corpo e con il suo ambiente fisico, ma anche con gli altri esseri umani.
Sin dall’inizio la biografia dell’individuo coincide con la storia dei suoi rapporti con gli altri; e questo perché anche le componenti non sociali dell’esperienza infantile vengono mediate dagli altri individui, e tramite loro, dall’esperienza sociale.
Quasi ogni aspetto della vita del neonato coinvolge altri essere umani, sono gli altri che creano i modelli attraverso i quali il neonato percepisce il mondo, ed è solo grazie a questi modelli che l’organismo riesce a stabilire un rapporto stabile con il mondo esterno, non soltanto con il mondo sociale, ma anche con l’ambiente fisico. Sono gli altri, per esempio, che stabiliscono i modelli secondo i quali viene soddisfatta la richiesta di cibo del bambino, e così facendo agiscono sul funzionamento del suo organismo.
Perciò la società non soltanto impone i suoi modelli sul comportamento infantile, ma giunge a organizzare i suoi bisogni primari.
La socializzazione è il processo attraverso il quale gli individui sviluppano, lungo tutto l’arco della loro vita nel corso dell’interazione sociale con vari gruppi sociali, di solito a partire dalla famiglia, un grado minimo e poi sempre più specializzato di competenze comunicative e di abilità all’interno di una determinata cultura, adottando i modelli di comportamento, le norme e i valori della propria società.
Distinguiamo due tipi di socializzazione:
• la socializzazione primaria: è volta ad assicurare le competenze sociali di base e riguarda i primi anni di vita del bambino;
• la socializzazione secondaria: è rivolta alla acquisizione delle competenze specifiche nell’esercizio dei ruoli inizia con la scolarizzazione e prosegue per tutta la vita.
Il processo di socializzazione pertanto non si conclude con l’infanzia, ma si protrae durante tutta il corso dell’esistenza.
Secondo il sociologo italiano Ferrarotti (Manuale di Sociologia, 1992) la socializzazione primaria sarebbe per propria natura non utilitaria, costituendo un valore in sé e per sé. La socializzazione secondaria avrebbe invece carattere strumentale, riguardando i ruoli e le funzioni che l’uomo è chiamato a ricoprire o svolgere nella società.
Le diverse nozioni di socializzazione possono essere combinate entro un modello di sviluppo nel tempo:
• la socializzazione della prima infanzia, condotta principalmente nel nucleo familiare;
• la socializzazione scolare;
• un progressivo processo di socializzazione in età adulta per adeguarsi a ruoli culturalmente definiti.
Nella famiglia avviene lo sviluppo intellettuale e psichico del bambino, nei primi scambi interpersonali si formano infatti i futuri modelli di comportamento che faranno da filtro alle esperienze successive, in cui il bambino prende coscienza dell’esistenza del mondo circostante, inizia a dare un significato a tutto ciò che lo circonda, impara a conoscere se stesso e a comunicare in modi diversi.
Quando il bambino inizia a conoscere se stesso, verso i due anni, si rende conto anche che esistono dei collegamenti tra sé e gli altri, percepisce che le persone sono legate in un campo di relazioni sociali e non sono isolate l’una dall’altra. Questo è il primo passo verso la comprensione della più ampia realtà sociale: la comprensione dei rapporti tra le persone, la scoperta di una relazione tra sé e la mamma o il papà.
Il secondo passo consiste nell’acquisizione della coscienza delle norme sociali che si sviluppa nel bambino tra i diciotto e ventiquattro mesi. Prima di allora egli non si rende conto che c’è qualcosa che può essere fatto e qualcosa che non si può fare, e da qui entra in gioco l’importanza dell’educazione dei genitori, i quali iniziano a dare delle norme che devono essere rispettate, in primo luogo all’interno della vita familiare, e poi anche fuori, nei rapporti con il mondo esterno.
La famiglia rappresenta, quindi, il nucleo fondamentale in cui si stabiliscono i primi legami emotivi, si apprendono il linguaggio e si interiorizzano i valori della cultura della società di appartenenza. Soprattutto nei primi anni di vita, dalla nascita ai 3 anni, il rapporto con i coetanei è secondario per la maturazione delle capacità relazionali. Infatti, il bambino deve prima imparare a conoscere se stesso, a riconoscere le proprie emozioni e imparare a gestirle. Deve, soprattutto, acquisire quella sicurezza di base che gli permetterà successivamente di interagire con gli altri in modo sicuro.
Tutto ciò avviene all’interno del rapporto genitore-figlio: stare insieme giocando, interagendo, divertendosi, ma anche arrabbiandosi e facendo i capricci. Questa è la vera condizione che permetterà al piccolo di sviluppare un’immagine di sé adeguata e una capacità di interazione sufficiente per affrontare serenamente il mondo esterno e i coetanei. La condivisione e il riconoscimento da parte dei genitori sono le fondamenta della personalità del figlio e lo aiutano nello sviluppo di un’identità equilibrata capace di gestirsi nel rapporto con l’altro.
Senza questa struttura l’interazione diventa fonte di stress e frustrazione, conducendo verso l’isolamento o la reiterazione di relazioni poco gratificanti. Diversamente, il rapporto con i coetanei assume connotati gratificanti sia sul piano ludico sia sul piano affettivo. Per esempio, accogliere i capricci del bambino, che rappresentano l’espressione di un disagio o di una rabbia che il piccolo non sa come gestire, comprendere ciò che lo fa stare male e cercare insieme di trovare una soluzione creativa, che rassereni il bambino e sia accettabile per il genitore, è uno di quei momenti di grosso impatto sull’evoluzione psicologica del bambino: egli imparerà a comunicare con le persone, ad essere accettato e accettare le emozioni negative, a gestirle adeguatamente e risolvere le difficoltà. Tutte competenze necessarie per interagire con i coetanei in maniera assertiva nelle fasi successive.
Anche la timidezza può sembrare un problema per i genitori. Il bambino timido è spesso visto come possibile bersaglio di azioni offensive da parte di coetanei più estroversi, ma in realtà l’introversione va considerata come una naturale caratteristica della personalità, del tutto normale, tranne nei casi in cui diventa estrema e cronica.
Come comportarsi, dunque, da genitore, per aiutare il proprio figlio a socializzare?
I bambini timidi innanzitutto non vanno forzati, ma incoraggiati con pazienza. Ogni bambino ha i propri tempi e non va mai etichettato come “incapace” di socializzare, di coltivare delle amicizie o di parlare in pubblico. Inutile e dannoso anche il paragone con altri bambini o con gli adulti, piuttosto sarebbe meglio fargli capire che viene accettato e amato comunque.
Impegnare i bambini timidi, senza esagerare, in attività extrascolastiche, come la palestra, la piscina, la scuola di musica, li aiuterà a venire a contatto con varie tipologie di bambini e accrescerà le possibilità di socializzazione. I genitori, però, dovranno tenere a mente che non c’è un numero prestabilito di amici da avere, ma che anzi sarebbe meglio se il proprio figlio avesse poche amicizie, ma di qualità: questo gli permetterà di aprirsi e crescere.
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