E se l’autostima non fosse la soluzione, ma il problema?

A volte non è mancanza di fiducia. Non è insicurezza, né debolezza. È quella voce silenziosa che ti dice che dovresti “valere di più”. Che dovresti credere in te, essere forte, sentirti all’altezza. E tu ci provi: ti ripeti frasi motivazionali, ti sforzi di pensare positivo, cerchi di piacerti. Ma dentro, qualcosa stona. Come se più tenti di convincerti di valere, più senti che ti manca qualcosa. Come se lo stesso bisogno di autostima fosse una forma di mancanza.
Quando la ricerca di valore diventa una prigione
Viviamo in un’epoca che ha fatto dell’autostima una religione. Ci hanno insegnato che volersi bene significa sentirsi sempre sicuri, vincenti, forti. Che chi si stima davvero non dubita, non crolla, non si mette in discussione. Così, a poco a poco, abbiamo confuso la stima di sé con la performance del sé. Ma c’è una differenza sottile, eppure enorme, tra costruirsi e rincorrersi. Quando l’autostima diventa un obiettivo da raggiungere, qualcosa in noi si irrigidisce: ogni errore pesa, ogni critica punge, ogni confronto ci mette in crisi. Ci diciamo che dovremmo “amare noi stessi”, ma in realtà passiamo il tempo a valutarci, come se fossimo un progetto da migliorare, una versione da aggiornare, un profilo da rendere più brillante. La verità è che spesso dietro la ricerca di autostima si nasconde la paura di non valere. Più cerchi di sentirti “abbastanza”, più ti convinci di non esserlo ancora. È un meccanismo sottile, ma spietato: il bisogno di sentirti forte finisce per farti sentire fragile.
Il circuito della gratificazione
Ogni volta che ricevi un complimento, un riconoscimento, un applauso, nel cervello scatta una scarica di dopamina. È la stessa sostanza che regola il piacere, la ricompensa, la motivazione. Ti senti bene, apprezzato, quasi euforico. Ma quella sensazione dura poco. Appena passa, ne vuoi ancora. È così che, senza accorgercene, possiamo diventare dipendenti dall’approvazione. Non da una sostanza, ma da un sentimento. Ogni volta che ci sentiamo visti, valutati positivamente, proviamo un piccolo sollievo. E quando quella dose non arriva – quando qualcuno non ci loda, quando un post non riceve abbastanza “mi piace”, quando non raggiungiamo l’obiettivo – compare un vuoto. Una micro-astinenza. Non lo sappiamo, ma stiamo alimentando un circuito che ci lega sempre di più al giudizio esterno. Cerchiamo conferme per sentirci vivi, ma ogni conferma ci rende un po’ più dipendenti. Così, invece di costruire sicurezza, costruiamo fragilità.
Quando l’autostima diventa una difesa
Molti confondono l’autostima con la forza. In realtà, a volte è una corazza. Un modo per tenere lontano il dolore di sentirsi inadeguati. Ci raccontiamo che dobbiamo credere in noi, ma dentro cerchiamo disperatamente di non deludere nessuno – né gli altri, né noi stessi. Eppure la verità è che nessuno può sentirsi “sufficiente” ogni giorno. Siamo esseri umani: sbagliamo, cambiamo, attraversiamo fasi di confusione. Ma l’ideale dell’autostima costante ci vieta di mostrarlo. Così ci difendiamo: diventiamo iper-performanti, iper-controllanti, o ci ritiriamo quando non ci sentiamo all’altezza. E più difendiamo la nostra immagine, più ci allontaniamo da ciò che siamo.
L’effetto collaterale della perfezione
Il problema dell’autostima condizionata è che funziona solo quando va tutto bene. Finché riesci, ti senti valido. Appena inciampi, il castello crolla. Così il fallimento, che dovrebbe essere un maestro, diventa un giudice. E per evitare la condanna, impariamo a evitare il rischio, a ridurre l’esposizione, a cercare solo situazioni in cui possiamo sentirci competenti. Il risultato è un mondo interiore rigido, dove l’errore non è più un’occasione, ma una colpa. Eppure è proprio l’errore a insegnarci chi siamo. È il confronto con i nostri limiti che ci rende capaci di crescere. Ma se la nostra autostima dipende dal sentirci “giusti”, non c’è spazio per l’imperfezione, né per l’apprendimento. Restiamo fermi nel tentativo di preservare un’immagine di noi stessi invece di evolverla.
L’illusione del “mi devo piacere”
Forse il più grande inganno è proprio questo: credere che l’obiettivo sia “piacersi sempre”. Ma l’autostima così intesa è un inganno gentile, una gabbia dorata. Ti spinge a confrontarti continuamente con un modello ideale, e ogni volta che non lo raggiungi, la delusione cresce. È per questo che più insegui l’autostima, più rischi di perderla. Perché la metti nelle mani di un parametro che cambia di continuo: i risultati, gli altri, il momento. E quando l’approvazione vacilla, vacilla tutto. L’autostima, se vissuta così, non ci fa crescere. Ci fa controllare, confrontare, giustificare. Ci fa vivere in costante valutazione. E ogni volta che ci chiediamo “quanto valgo?”, stiamo già cadendo nella trappola.
Il rimedio non è crederci di più, ma giudicarsi di meno
Albert Ellis, uno dei padri della terapia cognitiva, diceva che l’autostima è “il più grande disturbo mai inventato”, perché costringe a valutarsi di continuo: oggi valgo, oggi no. Meglio dell’autostima, diceva, è l’autoaccettazione incondizionata: la capacità di riconoscere che si può essere imperfetti, eppure degni di rispetto e di amore. Non serve credere di valere di più: serve smettere di misurarsi. Perché la vera forza non è nel voto che ci diamo, ma nel modo in cui stiamo con noi stessi quando non andiamo bene.
Autocompassione: il ritorno a casa
Qui entra in gioco un’altra parola, spesso fraintesa: autocompassione. Non è autoindulgenza, non è compatirsi. È trattarsi come tratteremmo qualcuno che amiamo. Con gentilezza, onestà, e la certezza che l’errore non ci toglie valore. Chi pratica autocompassione non si abbandona né si giudica: si accompagna. Riconosce la fatica, ma non la trasforma in colpa. Riconosce la vulnerabilità, ma non la scambia per fallimento. E da lì, passo dopo passo, impara davvero a crescere. La differenza con l’autostima è radicale: l’autostima si nutre di confronto, l’autocompassione si nutre di accoglienza. L’autostima teme l’errore, l’autocompassione lo abbraccia per imparare. In fondo, l’autocompassione non chiede di sentirsi sempre forti, ma di restare presenti anche quando ci si sente fragili. È questo che rende possibile la crescita autentica.
Accettare la fragilità: la vera rivoluzione
Viviamo in un mondo che idolatra la sicurezza, ma la vera libertà nasce quando smettiamo di averne bisogno. Quando capiamo che possiamo essere fragili e comunque degni. Che possiamo inciampare, cadere, ricominciare, e non per questo valere di meno. Accettare la propria vulnerabilità non significa arrendersi, ma riconciliarsi. Con il proprio passato, con i propri limiti, con la parte di noi che non è perfetta ma vera. È un gesto di verità: scegliere di non fingere più di essere invincibili.
Tornare a sé
Forse la cura più profonda non è imparare a “stimarsi”, ma imparare a stare. Stare con sé stessi, con le proprie contraddizioni, con le emozioni difficili. Senza etichettarle, senza misurarle. Solo sentirle. Perché l’amore di sé non è un risultato, è una presenza. Non è un voto da darsi, ma una mano da tenersi. E allora, forse, smettere di inseguire l’autostima non è perdita, ma libertà. È smettere di chiedersi “quanto valgo?” e cominciare a chiedersi “quanto riesco a restarmi accanto?”. È scoprire che la fiducia non nasce dal vincere, ma dal perdonarsi. E che non serve credere di essere speciali per sentirsi vivi: basta riconoscersi umani.