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Connessi ma soli: la difficoltà di essere visti

Connessi ma soli: la difficoltà di essere visti

Ci sono momenti in cui la solitudine pesa come un macigno, anche se intorno a te ci sono persone, voci, luci. Hai amici sui social, colleghi al lavoro, conoscenti che ti scrivono di tanto in tanto. Eppure, a volte, senti un vuoto difficile da spiegare: non mancano i contatti, ma le connessioni. Ti accorgi che è da tempo che non conosci davvero nessuno di nuovo.
Vorresti farlo — uscire, incontrare, parlare — ma non sai più bene come. Ogni occasione sembra artificiale, ogni incontro forzato. Ti ritrovi a rimandare: “Non oggi”, “Non qui”, “Non con queste persone”. Ti sembra che gli altri siano già tutti sistemati, con i loro gruppi, le loro routine, le loro storie. E tu, invece, resti ai margini, come se la vita sociale scorresse in un’altra stanza da cui non riesci più a entrare.
Non è disinteresse. È stanchezza, timidezza, disillusione. È la sensazione di non avere più gli strumenti per avvicinarsi davvero. Una volta bastava uscire di casa, oggi serve coraggio. Non per affrontare il mondo, ma per oltrepassare la distanza invisibile che separa le persone, anche quando sono a pochi metri di distanza.

Quando bastava uscire di casa

Per le generazioni precedenti, conoscere qualcuno non richiedeva uno sforzo consapevole. Le persone si incontravano per vicinanza: il quartiere, la scuola, la parrocchia, il bar, il circolo sportivo. Bastava uscire di casa per incrociare volti familiari, chiacchierare per strada, partecipare a feste o cene organizzate da amici di amici. L’amicizia nasceva lentamente, alimentata da tempi lenti, da una frequentazione costante, da gesti piccoli e quotidiani.
Le relazioni avevano confini chiari e ruoli stabili. Ci si incontrava “dal vivo”, senza filtri, e la fiducia cresceva col tempo. Anche le storie d’amore spesso nascevano così: uno sguardo in biblioteca, una conversazione durante una gita, un’amicizia che piano piano diventava qualcosa di più.
Oggi, quel tessuto relazionale spontaneo si è in gran parte sfilacciato. Le città sono più grandi, la vita più veloce, i luoghi di incontro fisici più rari. Molti giovani adulti raccontano di sentirsi “fuori rete”: circondati da gente, ma soli.

Le nuove forme dell’incontro

Negli ultimi vent’anni, internet ha cambiato tutto. I social network, nati per avvicinare le persone, hanno rivoluzionato il modo di creare e mantenere legami. Ci si conosce prima online, si parla per messaggi, ci si segue da lontano, si costruisce una versione di sé selezionata, filtrata, spesso più accattivante della realtà.
Anche la ricerca del partner è diventata digitale. Le app di dating hanno semplificato i primi contatti ma complicato il resto: lo sguardo si è sostituito con uno swipe, la conversazione con una notifica, l’attesa con l’immediatezza. In teoria, ogni giorno potremmo conoscere decine di persone nuove; in pratica, molti finiscono per sentirsi più soli di prima.
Il paradosso è evidente: siamo costantemente connessi, ma raramente in contatto.

Perché è diventato così difficile conoscere qualcuno?

Dietro questa fatica moderna si nasconde una serie di cambiamenti psicologici e culturali profondi.
La paura del giudizio
Viviamo in un tempo in cui tutto è osservabile, commentabile, confrontabile. Anche quando non c’è nessuno davanti a noi, sentiamo su di noi lo sguardo di un pubblico invisibile. È lo sguardo costruito dagli anni passati sui social: quello che ti fa scegliere la foto migliore, correggere le parole, evitare di mostrarti come sei davvero. Il risultato è che, quando torni nel mondo reale, ti sembra di non avere più spontaneità.
Ogni gesto appare carico di peso, ogni parola misurata. Ti chiedi: sarò interessante? dirò la cosa giusta? sembrerò fuori luogo? E così, pur desiderando contatto, ti ritrai. Ti rifugi nel ruolo dell’osservatore, dove non puoi sbagliare. Il paradosso è che, nel tentativo di piacere, diventiamo invisibili. Eppure, ciò che attrae davvero negli altri non è la perfezione, ma la sincerità. L’essere umani, non impeccabili.

La mancanza di tempo e di spazi
La vita adulta ha prosciugato la spontaneità. Gli impegni si susseguono, le giornate finiscono in un soffio, e le energie sociali si consumano prima di iniziare. Le serate improvvisate di un tempo si sono trasformate in chat su WhatsApp che non si concretizzano mai. I luoghi dove ci si incontrava per caso — un cortile, una libreria, una festa, un campo sportivo — esistono ancora, ma non li frequentiamo più senza scopo. Andiamo solo “se serve”, se conosciamo già qualcuno, se ci sentiamo pronti. E così, paradossalmente, la libertà di poter scegliere cosa fare in ogni momento si trasforma in isolamento. Uscire solo per esserci, per scoprire chi potremmo incontrare, sembra quasi un lusso che non possiamo più permetterci.

La sovrabbondanza di possibilità
Le app e i social ci offrono un catalogo infinito di volti, biografie, conversazioni.
Sembra una promessa di libertà, ma in realtà ci intrappola in una logica da supermercato emotivo: più possibilità hai, meno riesci a sceglierne una. L’incontro smette di essere un’esperienza e diventa una comparazione continua. Ti chiedi se valga la pena scrivere, se ne arriverà uno “migliore”, se quella persona sarà “giusta”. Ma le relazioni non nascono da un algoritmo, nascono da una decisione: restare, approfondire, aspettare. Quando tutto è sostituibile, nulla diventa davvero importante. E così finiamo per fluttuare tra mille conoscenze senza sentirci mai visti davvero da nessuno.

La fragilità emotiva
Conoscere qualcuno significa esporsi, lasciare intravedere le parti che non controlliamo. Ma dopo anni di comunicazioni filtrate e immagini curate, mostrarsi senza schermi è diventato spaventoso.
Molti giovani adulti hanno imparato a raccontarsi con distacco, a dosare emozioni, a non chiedere troppo. Si parla di tutto, ma raramente di sé. Si scherza, ma non ci si confida. È come se, per proteggersi, avessimo abbassato il volume dei sentimenti. Ma questa distanza di sicurezza impedisce anche la connessione profonda: se non ti lasci vedere, nessuno potrà riconoscerti davvero. Eppure, la vulnerabilità non è debolezza: è la lingua con cui si parla l’intimità.

Il disincanto
Molti, dopo esperienze deludenti, hanno smesso di crederci. Ci provano, si aprono, poi si ritrovano a scrivere a qualcuno che smette di rispondere senza spiegazioni. Dietro ogni “ghosting” resta una piccola ferita, anche se non lo ammetti. Ti dici che non importa, che era solo una chiacchierata, ma una parte di te registra l’ennesima prova del fatto che “non vale la pena”. Così cresce il cinismo: l’idea che le persone siano inaffidabili, che il contatto vero sia ormai un’eccezione. E allora si rinuncia. Si preferisce la solitudine controllata all’imprevedibilità dell’altro. Si smette di cercare, di scrivere, di provarci. Ma dietro questa apparente serenità c’è spesso una nostalgia sottile: il desiderio di poter ancora credere che valga la pena tentare.
Tutte queste difficoltà — la paura di essere giudicati, la stanchezza, l’eccesso di possibilità, la fragilità e il disincanto — finiscono per intrecciarsi e alimentarsi a vicenda. Non è solo un problema di tempo o di mezzi: è una questione di fiducia, nel mondo e in sé stessi. Quando ogni incontro sembra precario, smetti di credere che valga la pena mostrarti davvero. E lentamente inizi a ridurti, a parlare di meno, a sentire di meno, a vivere in superficie.
La solitudine contemporanea non nasce solo dal non avere persone accanto, ma dal non sentirsi più parte di qualcosa. Come se l’abilità di connettersi fosse rimasta intrappolata dentro gli schermi, e il contatto reale fosse diventato un linguaggio che abbiamo dimenticato. Eppure, la nostra identità — la sensazione di chi siamo — nasce proprio dallo sguardo dell’altro. Senza incontri autentici, finiamo per specchiarci solo in versioni di noi che non ci appartengono più.

L’effetto sui legami e sull’identità

Questa nuova forma di socialità, mediata e frammentata, incide anche sul modo in cui ci percepiamo. Quando la maggior parte delle nostre interazioni avviene online, il confine tra “io” e “immagine di me” si fa sottile. Invece di chiederti “Chi sono?”, potresti trovarti a chiederti “Come appaio?”. Nel tempo, questo cambia la qualità dei legami. L’amicizia, per esempio, si riduce spesso a scambi veloci, a like o messaggi di circostanza. I rapporti diventano intermittenti, superficiali, legati più alla condivisione di interessi che di esperienze. Manca la continuità, la ritualità dell’incontro fisico, quella che costruiva fiducia.
Anche nelle relazioni sentimentali, la logica dell’immediatezza ha lasciato il segno. Ci si conosce rapidamente, ci si idealizza, ci si stanca altrettanto presto. La possibilità di “scorrere oltre” riduce la tolleranza alla noia, ai silenzi, ai piccoli difetti. Ci si abitua a cambiare persona come si cambia applicazione. Dietro questa apparente libertà si nasconde una fragilità affettiva: il desiderio di connessione autentica convive con la paura di restare delusi. E così si resta sospesi, a metà strada tra il bisogno di contatto e il timore di lasciarsi coinvolgere davvero.

Da dove nasce questa chiusura?

La difficoltà di creare nuove connessioni nasce da un modello di vita sempre più orientato alla performance. Ci sentiamo continuamente sotto osservazione: dobbiamo essere interessanti, socievoli, brillanti, ma anche indipendenti e “a posto con noi stessi”. In questa corsa a mostrarsi forti e sicuri, l’imbarazzo naturale dei primi incontri viene percepito come un difetto.
In passato, l’imbarazzo era parte del gioco: si arrossiva, si sbagliava, si rideva insieme. Oggi invece tendiamo a voler apparire già “pronti”, senza incertezze. Ma questa perfezione, costruita e difesa, ci allontana. Le persone si incontrano con la paura di non essere all’altezza, e così restano chiuse nelle proprie difese.
A volte, dietro la chiusura si nasconde anche un vissuto di delusione. Chi ha sperimentato amicizie effimere o relazioni tossiche può sviluppare una sorta di sfiducia di fondo. È come se dentro di sé avesse registrato un messaggio implicito: “Meglio non esporsi troppo, tanto finirà male”. Eppure, la solitudine che ne deriva è altrettanto dolorosa.

Come ritrovare la fiducia negli incontri

Ricominciare a conoscere persone nuove non significa “tornare indietro”, ma riscoprire il valore dell’incontro reale. Alcuni piccoli passi possono fare la differenza.
Scegli la lentezza.
Le connessioni profonde nascono dal tempo condiviso. Non serve trovare subito “le persone giuste”: inizia da ciò che ti piace. Un corso, un’attività, un gruppo di lettura, un’associazione. Le relazioni più autentiche spesso nascono come effetto collaterale della vita vissuta.

Coltiva la presenza.
Quando sei con qualcuno, anche per poco, prova a esserci davvero. Metti via il telefono, ascolta, guarda negli occhi. L’attenzione è una forma di intimità, e oggi è diventata rarissima.

Accetta la vulnerabilità.
Conoscere qualcuno significa esporsi: accettare di non sapere come andrà. Non puoi piacere a tutti, e va bene così. Ogni incontro autentico nasce da un piccolo rischio.

Usa la tecnologia come ponte, non come rifugio.
Le app e i social possono essere strumenti utili, ma vanno usati con intenzione. Se scrivi a qualcuno, fallo per conoscerlo davvero, non per riempire un vuoto. E prova a incontrarlo dal vivo appena puoi: solo lì la relazione diventa reale.

Riconosci la tua parte attiva.
Spesso aspettiamo che siano gli altri a fare il primo passo, ma la socialità è una competenza che si allena. Chiedere un’informazione, scambiare due parole in un contesto nuovo, proporre un caffè: gesti piccoli che riaprono la porta al mondo.

Il valore degli incontri imperfetti
A volte idealizziamo il passato pensando che fosse tutto più semplice. Forse non lo era, ma c’era un elemento che oggi rischiamo di perdere: la disponibilità all’imprevisto. Gli incontri più belli, spesso, nascono quando non li programmi. Nella ricerca di nuove amicizie o relazioni, la verità è che non serve essere perfetti o irresistibili: serve essere presenti. Offrire la propria autenticità, anche fragile, è il modo più diretto per costruire legami veri.

Conoscere nuove persone oggi è una sfida, sì, ma è anche un invito. Un invito a uscire dal ruolo di spettatori per tornare protagonisti dei nostri legami. A passare dal “ti seguo” al “ti incontro”. A scegliere la vicinanza reale, quella che nasce da due persone che si guardano e si ascoltano, senza filtri. Perché, alla fine, nonostante tutto, la cosa più rivoluzionaria resta sempre la stessa: avere il coraggio di essere presenti — davvero — davanti a un altro essere umano.