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Il disprezzo è l’emozione che separa

Il disprezzo è l’emozione che separa

C'è un’emozione di cui parliamo poco, ma che si insinua silenziosa nelle nostre relazioni, nei pensieri, a volte perfino nello sguardo che rivolgiamo a noi stessi. È il disprezzo. Non urla, non ha la forza bruciante della rabbia, né la fragilità del dolore. È più sottile, più tagliente. Spesso, più pericolosa. Il disprezzo è quell’emozione che ci fa sentire superiori, che ci porta a rifiutare qualcuno – o una parte di noi – con freddezza e distanza. È un giudizio che chiude il dialogo. E quando diventa un’abitudine emotiva, può intossicare relazioni, minare l’autostima e renderci incapaci di riconoscere il valore dell’altro o di noi stessi.

Un’emozione sociale, antica e universale

Il disprezzo ha una sua espressione riconoscibile: un angolo della bocca sollevato, uno sguardo di sufficienza, un tono sarcastico. È stato riconosciuto come emozione "universale" da Paul Ekman, che ha individuato pattern espressivi comuni nelle culture di tutto il mondo. Ma non è un’emozione primaria: è il risultato di una valutazione sociale, spesso morale. In termini evolutivi, il disprezzo aveva una funzione chiara: segnalare chi violava le regole del gruppo, prendere le distanze da chi poteva essere una minaccia per la coesione o la sopravvivenza collettiva. Provare disprezzo, un tempo, serviva a orientare le scelte: con chi allearsi, da chi allontanarsi. Oggi, però, il contesto è cambiato. E se il disprezzo non viene riconosciuto, può trasformarsi in un’abitudine corrosiva.

Quando è verso gli altri...

Quando disprezziamo qualcuno, stiamo mandando un messaggio implicito: "Tu non sei all’altezza. Non vali il mio rispetto". Non è solo una critica al comportamento: è una condanna della persona. E questo, nelle relazioni affettive, amicali, professionali, è devastante. Nel lungo periodo, chi è oggetto di disprezzo si sente umiliato, invisibile, svalutato. In coppia, secondo le ricerche di John Gottman, il disprezzo è il miglior predittore di separazione. È la crepa che annuncia il crollo. Perché dove c'è disprezzo, viene meno il rispetto. E senza rispetto, l’amore non può reggere. Disprezzare gli altri può anche essere una difesa narcisistica: ci si protegge dal senso di inadeguatezza guardando l’altro dall’alto in basso. Ma quel sollievo è fragile, e spesso nasconde un malessere più profondo.

...e quando è verso sé stessi

Meno visibile, ma ancora più doloroso, è il disprezzo che rivolgiamo a noi stessi. Non si manifesta con parole violente, ma con una voce interna che ci giudica: "Non vali", "hai fallito", "nessuno potrà amarti così". È il risultato di ferite antiche, di educazioni svalutanti, di confronti impossibili tra il sé reale e un ideale irraggiungibile. Questo tipo di disprezzo mina l’autostima, alimenta il senso di vergogna, favorisce stati depressivi. Chi cresce in ambienti in cui viene disprezzato tende a interiorizzare quel giudizio, fino a farlo proprio. E continua a punirsi da solo, anche da adulto, ogni volta che si sente "sbagliato".

Perché proviamo disprezzo?

Il disprezzo può nascere da molte fonti: da un bisogno di proteggerci, da emozioni come la rabbia o la vergogna, da valori morali profondamente radicati. A volte ci aiuta a prendere le distanze da chi ci fa male. Altre volte, invece, diventa un modo per evitare il confronto con il dolore. Come se sminuire l’altro – o noi stessi – fosse più facile che sentirci vulnerabili. C'è anche una radice sociale, quasi antica, nel disprezzo: in certi contesti serve a isolare chi mette in pericolo l’equilibrio del gruppo. E spesso, nel provare disprezzo insieme, le persone si uniscono. Ma ciò che crea coesione in un momento, può lasciare dietro di sé un senso di solitudine e freddezza nel lungo termine.

Il disprezzo come risparmio emotivo

Un'altra funzione meno evidente del disprezzo è il modo in cui ci aiuta a risparmiare energie emotive. Alcuni ricercatori propongono che, dal punto di vista adattivo, il disprezzo serva a disattivare risposte empatiche verso chi viene percepito come irrimediabilmente "inaccettabile". In questo modo, l’individuo non investe più tempo né risorse relazionali in persone o situazioni giudicate come senza speranza. È un meccanismo di economia psicologica: se considero qualcuno indegno, non provo senso di colpa, non mi sento obbligato ad aiutarlo, non sono coinvolto emotivamente. Ma questo stesso meccanismo, se diventa automatico, può portarci a escludere in modo definitivo chi invece avrebbe bisogno di comprensione o avrebbe ancora qualcosa da dire. Si chiude così ogni possibilità di trasformazione, tanto nell'altro quanto in noi stessi.

Quando il disprezzo diventa un problema

Il disprezzo, se occasionale, può persino avere una funzione positiva: ci aiuta a riconoscere i nostri confini, a dire "no" a ciò che ci ferisce. Ma quando diventa un’abitudine, una modalità comunicativa costante, può avere effetti devastanti. Nelle relazioni affettive, logora il rispetto, blocca il dialogo e mina la fiducia. Sul piano personale, l’auto-disprezzo è uno dei motori più potenti dell’ansia e della depressione. A livello sociale, genera isolamento, pregiudizio e chiusura. È un’emozione che separa: dagli altri, da sé stessi, dalla possibilità di comprensione.

Quando il disprezzo lascia una ferita

Chi riceve disprezzo in modo sistematico, soprattutto in età evolutiva, porta spesso dentro di sé una ferita invisibile ma profonda. Non si tratta solo di sentirsi rifiutati, ma di essere considerati indegni, ridicoli, privi di valore. Il messaggio implicito è: "non meriti nemmeno il mio rispetto". Nei casi più feroci – come il bullismo, la denigrazione pubblica o le umiliazioni familiari – questo tipo di esperienza lascia un’impronta duratura, spesso ben oltre l’infanzia. Da adulti, chi è stato esposto a disprezzo cronico può sviluppare una sorta di "aspettativa emotiva negativa": si aspetta, anche in contesti sicuri, di essere nuovamente deriso, escluso, rifiutato. Ogni nuova relazione può diventare terreno minato, ogni errore percepito come la prova definitiva della propria inadeguatezza. In alcuni casi, questa storia interiore si traduce in ritiro sociale, ipersensibilità alle critiche, ansia relazionale o disturbi depressivi. Anche quando il disprezzo non è più presente nel contesto reale, la sua eco continua a risuonare dentro, come se la persona avesse interiorizzato quella voce svalutante e ora la rivolgesse a sé stessa. Riconoscere questo schema e poterlo raccontare in un contesto protetto – come quello terapeutico – è spesso il primo passo per disinnescarne il potere e ricostruire un senso di valore personale.

Imparare a riconoscerlo

Il primo passo per non lasciarci dominare dal disprezzo è riconoscerlo. A volte si nasconde dietro l’ironia, la battuta tagliente, il pensiero sussurrato. Ma se ci osserviamo con onestà, possiamo notare quando scatta, verso chi, in quali situazioni.
A quel punto possiamo chiederci:
- Da cosa sto cercando di proteggermi?
- Che parte di me sento messa in discussione in questo momento?
- Posso esprimere il mio disaccordo o il mio dolore in un altro modo, senza disprezzare?
In terapia, capita spesso che il disprezzo verso sé stessi si sciolga quando la persona inizia a sentirsi davvero vista e rispettata. Perché il contrario del disprezzo non è l’approvazione cieca. È la comprensione profonda. È uno sguardo che dice: "Puoi avere dei limiti, ma sei degno comunque di essere considerato". Il disprezzo, in fondo, nasce sempre da una distanza. Distanza tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere. Tra l’altro e l’ideale. Tra il sé reale e il sé desiderato. E se è vero che ci spinge a proteggerci, è altrettanto vero che ci isola. Ci chiude. Ci impedisce di incontrare l’altro nella sua imperfezione – e noi stessi nella nostra. Ma c’è un’alternativa. Possiamo provare a stare in quella distanza con più morbidezza. A riconoscere che ogni emozione, anche la più scomoda, ha qualcosa da raccontarci. Che sotto il disprezzo, a volte, c’è la paura di non essere visti. O il dolore di essere stati feriti. E allora, forse, non dobbiamo combatterlo. Solo ascoltarlo con attenzione, lasciarci insegnare da lui qualcosa su di noi. E poi scegliere: se vogliamo continuare a chiudere... o provare ad aprire, con delicatezza, uno spiraglio nuovo. Verso gli altri. E verso noi stessi.