Tsundoku ovvero vivere felicemente sepolti dai libri

Dicono che non è grave. Che potrebbe andarti peggio. Che almeno non fai uso di sostanze, non spendi soldi in borse firmate, non vai in crisi per l’ultimo modello di smartphone. Dicono che è solo una passione innocua, una forma di piacere raffinato. Ma lo sai anche tu: hai un problema. E si chiama lettura compulsiva. Lo capisci quando entri in libreria "per dare un’occhiata" e ne esci come se avessi appena fatto la spesa per un bunker anti-apocalisse. Quando apri il pacco di libri ordinati online e hai un piccolo sussulto di gioia, come se avessi ricevuto una lettera d’amore. Quando dici "solo un capitolo" e poi ti trovi alle tre di notte a cercare su Google “sintomi da astinenza post-romanzo”.
Hai fame. Ma non di cibo: di pagine. Divori parole, mastichi storie, ingoi concetti. A volte leggi per piacere, altre per necessità, altre ancora perché non sai bene fare altro. E anche quando ti prometti di rallentare — "adesso leggo solo quelli che ho già" — ecco che qualcosa ti seduce. Un titolo, una copertina, una frase sul retro. E sei di nuovo lì. A comprare l’ennesimo libro. Nel tempo hai sviluppato un vero talento per le scuse. Questo mi serve per il lavoro. Questo è terapeutico. Questo lo prendo perché lo consiglia la neuroscienza, o forse era Instagram. Ma la verità è che i libri ti piacciono anche quando non li leggi. Ti piace possederli, sentirli vicini, toccarli, annusarli. Sì, annusarli. Lo fanno in tanti, tranquillo.
C'è un piacere tutto particolare nell'avere un libro nuovo. Anche se non lo inizi subito. Anche se non lo inizi mai. Sta lì, come una presenza benevola. Ogni tanto lo sposti da una stanza all'altra, lo sfogli senza leggere, lo sistemi accanto a un altro, con l'accortezza con cui si abbinano i vini al menù. Perché una libreria non è solo un contenitore: è un autoritratto. Poi c'è l'accumulo. La tua casa ha più libri che vestiti. Più titoli che tazze. E probabilmente, se dovessi scegliere tra un divano nuovo e una nuova libreria, sapresti già la risposta. Le pile di volumi iniziano a occupare gli angoli. Spuntano sul comodino, si infilano tra i cuscini del divano, conquistano la cucina. Sei a un passo dalla versione letteraria di "Sepolti in casa". Ma invece di scatole di cartone hai saggi filosofici, romanzi esistenzialisti e almeno tre biografie non autorizzate.
Eppure, non sei solo. In Giappone hanno perfino trovato una parola per descrivere questa tendenza affettuosa all'accumulo di libri non letti. Si chiama "tsundoku". Una parola che unisce l'idea dell'accumulare a quella del leggere. O meglio: dell'intenzione di leggere. Nasce nell'epoca Meiji, quando l'accesso ai libri si è allargato e la gente ha iniziato a fare scorte come se il sapere potesse finire da un momento all'altro. Il tsundoku è più di un'abitudine: è una dichiarazione d'amore. Non verso ciò che si conosce, ma verso ciò che si desidera conoscere. Ogni libro non letto è un "io futuro" che aspetta il suo momento. Ogni copertina che resta chiusa è una promessa: lo farò, ci arriverò, prima o poi avrò tempo. E anche se sai che quel tempo non basterà mai per tutto, averli lì ti fa sentire più vivo. Più curioso. Meno solo.
C'è qualcosa di profondamente rassicurante in una libreria piena. Come se ogni volume fosse una garanzia contro la noia, l'apatia, la disconnessione. Basta guardarli, i libri, per sentirsi di nuovo in relazione. Con la mente, con la memoria, con il mondo. Sono oggetti silenziosi ma parlanti: ti raccontano chi sei stato e chi vorresti essere. In Occidente non abbiamo una parola così precisa, ma il fenomeno è lo stesso. È universale. Accumuliamo libri come scorte emotive. Come mappe di territori inesplorati. Come alternative a noi stessi. Ogni libro sullo scaffale è una versione possibile di te. Quella che si appassiona di filosofia greca. Quella che si commuove con le poesie. Quella che un giorno capirà l'economia comportamentale. E ogni tanto ti capita perfino di rileggerli. Di riprendere un libro dimenticato e scoprire che è cambiato. O che sei cambiato tu.
C'è chi ha provato a razionalizzare tutto questo. Il saggista Nassim Taleb ha definito "antilibrary" l'insieme dei libri non letti che possediamo. Secondo lui, non sono un segno di fallimento, ma di umiltà intellettuale: ci ricordano quanto ancora non sappiamo, quanto resta da esplorare. E ci fanno bene, proprio per questo. Anche Umberto Eco, la cui biblioteca contava oltre trentamila volumi, diceva che i libri non letti erano più importanti di quelli letti. Perché incarnano il potenziale, non la memoria.
Potrei dirti, da psicoterapeuta, che tutto questo ha un senso. Che è un modo per sentirsi competenti, per arginare l'ansia, per costruire una versione ideale del proprio io. E in parte è così. Ma non è solo questo. Leggere non è solo una strategia di sopravvivenza emotiva: è anche una forma di appartenenza. Ai pensieri. Alle storie. Agli altri. A te stesso. Quando leggi, sei in movimento anche se stai fermo. Viaggi. Esplori. Ti perdi e ti ritrovi. Ogni libro è una finestra aperta. Ogni pagina è una lente. E più leggi, più vedi. Più capisci. Più senti. Non è solo una questione di cultura, ma di connessione. Sì, a volte leggi per fuggire. Ma altre volte leggi per restare. Per stare dove sei, ma con più strumenti. Più storie dentro. Più risorse. Più compagnia. I libri fanno questo: ti allargano dentro. Ti espandono le emozioni, ti regalano parole per dire cose che non sapevi nemmeno di provare.
E non è solo una questione privata. Leggere crea ponti, apre dialoghi, costruisce comunità invisibili. Ti rende parte di qualcosa che va oltre te stesso. Ogni volta che condividi una lettura, che consigli un romanzo, che discuti di un personaggio, stai facendo un gesto di connessione. E in un tempo in cui l'isolamento sembra normale, leggere è un atto profondamente relazionale. E poi diciamolo: leggere fa anche bene alla salute. Riduce lo stress, migliora la concentrazione, stimola la memoria. Leggere romanzi, in particolare, aumenta l'empatia, attiva il cervello sociale. Non lo dico io, lo dicono decine di studi neuroscientifici. Quindi la prossima volta che compri l'ennesimo libro, puoi anche dirti che è per il benessere. La tua dose quotidiana di umanità.
E no, non li leggerai tutti. Non riuscirai mai a pareggiare i conti con la tua libreria. Ma non è questo il punto. Non si tratta di completare, ma di continuare a desiderare. Di mantenere viva la scintilla della curiosità, anche se il tempo è poco e la vita è piena. Quindi no, non guarirai. Ma non è una malattia. È la tua forma di amore. La tua dichiarazione silenziosa che ogni giorno, da qualche parte, esiste una storia che può ancora cambiarti la vita. E magari l'hai già comprata. Sta solo aspettando che tu la apra.